giovedì 11 novembre 2010

Donazioni Samaritane e trapianti: il parere della Dott.ssa Josephine G. Morana

Abbiamo il piacere di pubblicare l'intervista che la Dott.ssa Josephine G. Morana, responsabile del dipartimento di Psicologia Clinica dell'ISMETT, ha rilasciato all'AIDO. L'intervista è stata inserita all'interno della newsletter "L'Arcobaleno" (n. 2/2010). E' possibile scaricare il numero completo qui.

Abbiamo chiesto al Direttore del Dipartimento di Psicologia dell’ISMETT – Istituto Mediterraneo per i Trapianti e le Terapie ad alta Specializzazione - dottoressa Josephine G. Morana, un suo parere sul recente fenomeno delle “donazioni samaritane”. Dottoressa Morana, di cosa si occupa esattamente?

All’interno dell’ISMETT dirigo il Dipartimento di Psicologia che ha il compito di eseguire una valutazione dei pazienti in attesa di organi solidi, per stabilirne l’idoneità o per pianificare interventi di supporto. Queste valutazioni vengono eseguite rispettando le Linee Guida emanate dal Ministero della Salute, alla stesura delle quali ho partecipato, nel 2001, quando Nanni Costa mi chiamò a far parte della Commissione. Il suo Dipartimento esegue pure le valutazioni psicologiche nei casi di donazione da vivente, se non sbaglio. Certamente, e quelli sono i casi più complessi: mentre nel caso di un paziente in attesa di trapianto noi ci troviamo di fronte a una persona che sta male, a volte è in fin di vita, e che dovrà subire un intervento per ritrovare la salute, cioè per star bene, nel caso di un donatore vivente la situazione è capovolta: una persona in perfetto stato di salute dovrà subire un intervento che comporta dei rischi, e perfino una mutilazione. Come si può capire qui entrano in gioco anche considerazioni di carattere etico, morale: una persona dovrà sacrificarsi per dare la salute, la vita, a un’altra. Quali fattori prendete in esame? L’aspetto fondamentale da prendere in considerazione è, necessariamente, la relazione donatore-ricevente, ma non si deve trascurare il contesto più allargato. Per esempio fenomeni di coercizione, non necessariamente evidenti, possono avvenire all’interno della famiglia dove, in alcuni casi, il donatore si trova “costretto” ad offrirsi a causa di pressioni e ricatti psicologici difficili da sostenere senza un supporto esterno. Per noi operatori è estremamente importante quindi comprendere se l’offerta di donazione è davvero libera e spontanea. Dobbiamo prendere in esame le motivazioni, anche le più nascoste, per comprendere qual è il “ricavo” per il donatore: in alcuni casi potrebbe essere semplicemente il desiderio di far star bene la persona cara, o di sentirsi importante,“ eroico”; ma ci potrebbero essere anche situazioni di relazioni negative tra donatore e ricevente: in questi casi il donatore spera di recuperare, col suo gesto, il rapporto. È bene aiutare la persona che si offre per donare un organo a riconoscere ed elaborare le motivazioni che guidano il suo gesto, anche per evitare successive delusioni nelle aspettative, che sarebbero psicologicamente difficili da accettare. Quanto i donatori sono in grado di prevedere come vivranno il momento successivo all’intervento? Anche questo è un aspetto da non trascurare. Ed è importante per noi preparare il donatore. Per esempio non è infrequente, soprattutto fra i giovani, la difficoltà ad accettare la cicatrice. Ci sono casi in cui è il partner ad avere problemi di accettazione del segno dell’operazione, soprattutto in quei casi in cui la ferita è molto grande. È fondamentale quindi che nella scelta si coinvolga la coppia, cioè il partner della persona che si offre di donare, e che si aiutino entrambi a elaborare, insieme, la decisione.Anche perché può succedere che il marito, la moglie, il compagno abbiano paure, che temano i rischi connessi all’intervento; soprattutto quando ci sono figli, ci può essere forte il timore che l’operazione possa andare male e che i bambini restino soli.Può accadere che il donatore si trovi stretto tra il desiderio di aiutare una persona cara da una parte, e le paure e le resistenze del suo partner dall’altra: una di quelle situazioni in cui è difficile trovare una via d’uscita. E in tutto questo si possono inserire problemi preesistenti della coppia, che trovano in questi momenti l’occasione per emergere. Insomma un lavoro di elaborazione delle motivazioni e di supporto alla decisione estremamente complesso e impegnativo. Immagino sia impegnativo anche dal punto di vista del coinvolgimento psicologico anche per voi operatori. Certamente sì. Naturalmente un professionista deve essere in grado di affrontare certe situazioni, ma in alcuni casi le difficoltà sono maggiori. Per esempio, nel nostro dipartimento abbiamo organizzato il lavoro facendo in modo che l’operatore che lavora col ricevente - a contatto con le sue aspettative, le sue sofferenze, la sua paura della morte – non sia lo stesso che lavora col donatore, che invece deve fare i conti con paure e problematiche molto diverse e, come abbiamo visto, spesso opposte. Alla luce delle considerazioni appena fatte, come vede il fenomeno dei “donatori samaritani”? Se le devo dire la verità non ho ancora voluto pensarci. Le confesso che quando ho sentito la notizia ho avuto un brivido: è talmente difficile valutare un parente donatore, figuriamoci un “samaritano”! Ma come può succedere che una persona si alzi un giorno e dica: - voglio donare un organo a uno sconosciuto. - ? Quali spinte psicologiche potrebbero star dietro a una scelta come questa? La prima risposta che mi viene in mente è ... una psicopatologia. Ma certamente non c’è solo questo. Nei casi di donazione da vivente, e questo ne è un particolare caso, bisogna chiedersi qual è il ricavo: in ogni situazione di dare e avere c’è sempre un ricavo anche per chi dà. Nel caso del donatore parente c’è il legame affettivo, la consapevolezza della persona cara che soffre. Oltre, naturalmente, a tutte le altre implicazioni di cui abbiamo parlato. Nel “donatore samaritano” quale potrebbe essere la spinta? Il “donatore samaritano” potrebbe essere una persona non contenta di se stessa che, con questo gesto, vorrebbe dare un valore alla sua vita; potrebbe essere spinta dalla voglia di sentirsi “eroico”, dal desiderio di fare qualcosa di eccezionale. Come potrebbe essere invece semplicemente una persona spinta dalla voglia di aiutare gli altri, senza un ricavo secondario da questo gesto. È importante la valutazione del ricavo: il bilancio del dare e avere. Quindi importantissima la valutazione psicologica del donatore anche in questo caso. Soprattutto in questo caso.

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lunedì 8 novembre 2010

Analisi delle aspettative e delle credenze nei pazienti con patologie alcool correlate

Da un punto di vista cognitivo si è potuto evidenziare il ruolo delle aspettative e delle credenze degli individui rispetto all’influenza di questi su una vasta gamma di comportamenti. Spesso tale influenza si estende alle caratteristiche peculiari degli stili di vita individuali e al consumo di sostanze. Per quel che concerne l’attività di valutazione psicologica in area trapianti è chiaro che il monitoraggio e la valutazione in pazienti con diagnosi di patologie alcool-correlate (cirrosi epatica ad esempio) rappresenti una attività delicata e allo stesso tempo strategica. Il nostro obiettivo, in accordo con le linee guida e ai protocolli attuali, concerne la verifica dell’idoneità del paziente al trapianto, ove l’abuso di alcool rappresenti una controindicazione al trapianto stesso. Considerate tali premesse è di fondamentale importanza la conoscenza della storia personale del paziente e soprattutto le modalità con cui l’abuso di alcool si è via via inserito all’interno delle sue modalità comportamentali modificandone così il funzionamento e divendando poi una dipendenza. Ai fini di una conoscenza approfondita appare utile concentrarsi anche sulle modalità di pensiero del paziente collegate all’abuso. Esiste effettivamente uno stile cognitivo che è caratterizzato da aspettative e credenze specifiche circa l’assunzione di alcool. Molte ricerche hanno evidenziato in particolare l’influenza di tali aspettative e credenze sulle modalità di mantenimento dell’abuso, caratterizzandole quindi come fattori di rischio. Tali aspetti si aggiungerebbero a quelli di ordine neurobiologico (si pensi all’influenza dell’alcool sul cosiddetto “circuito della ricompensa”). Più in particolare gli studi più recenti (Spada e Wells, 2005; 2006; 2008) hanno evidenziato l’influenza delle credenze metacognitive per quel che concerne il mantenimento delle patologie alcool correlate. Le credenze concernono le informazioni che le persone hanno di se stesse in merito agli stati mentali interni e alle strategie di autoregolazione (Wells, 2000). In tal senso è possibile ipotizzare che la regolazione degli stati interni negativi possa rappresentare una motivazione importante all’assunzione della sostanza. Molto spesso infatti vi è la convinzione che l’alcool possa favorire le capacità di problem solving nonchè quelle connesse al controllo dei pensieri e alla regolazione delle capacità attentive. Tali credenze potrebbero indicare pertanto una sostanziale mancanza di fiducia dei soggetti circa le proprie capacità di efficienza cognitiva, sia per quel che concerne le attività di coping che le attività di regolazione degli stati interni. E questo rappresenterebbe in ultima istanza un . fattore di rischio ed un possibile predittore del consumo di alcool Queste evidenze sono molto interessanti, anche e soprattutto per quel che concerne la pratica clinica.

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